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Dov'è
Le malghe, gli alpeggi e l'altopiano
L’altopiano di Asiago è un ambiente dai tanti primati: esteso su 560 chilometri quadrati, – già questo è notevole – conta 87 malghe attorno alle quali ruota l’antica economia dell’alpeggio, qui documentata fin dall’anno Mille. Una sorta di ritualità materiale, che si rinnova ogni anno con la salita di mandrie e greggi verso le praterie d’alta quota, nella prospettiva di restarvi fino alla tarda estate, approfittando della loro esuberanza estiva per produrre formaggi dal sapore impareggiabile.
Una malga è in effetti un complesso produttivo che comprende varie strutture: la baita, dove soggiorna la famiglia titolare; la casara, adibita alla trasformazione del latte e alla prima stagionatura delle forme; la stalla per gli animali da latte, per lo più vacche, e la porcilaia per l’allevamento complementare di qualche maiale a fine salumiero, leggasi ‘sopresse’. Tutt’intorno, i pascoli, costituiti in parte da praterie naturali e in parte da superfici sottratte al bosco e poi pervicacemente difese dal suo ritorno. Ogni malga ‘carica’ più o meno un centinaio di capi bovini, secondo un calcolo teso a evitare un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali. In sostanza, un’attività ecosostenibile ante litteram con un equilibrio fra natura e attività umana affermatosi nei secoli.
Il viaggio, occasione per pregustare le bellezze dell'altopiano
La strada di più comune accesso all’Altopiano è la strada del Costo. Sedici tornanti, che superano la soglia dei mille metri, oltre la quale si apre alla vista un’emozionante distesa di ondulazioni prative punteggiate da aguzzi campanili alla veneziana. Sullo sfondo, la scenografica dorsale culminante nei 2341 metri di Cima Dodici, che fin dal nome anticipa i trascorsi bellici di questi luoghi. Raggiunta Asiago, si prosegue per Val Giardini lungo una sterrata che nel giro di qualche chilometro esce dal bosco, anche qui segnato dalla famigerata tempesta Vaia del 2018, e sale verso la zona sommitale del Monte Zebio (m 1717). La malga omonima si trova ai margini di un breve tratto pianeggiante della strada, che poi prosegue in saliscendi.
Arrivando di buon’ora si può assistere alla mungitura, cui le vacche si sottopongono diligentemente prima di allontanarsi per conto proprio verso il pascolo quotidiano. Nella casara il malghese dapprima screma il latte e poi lo riscalda alla temperatura richiesta perché il caglio provochi la separazione della componente solida. La massa che ne risulta, la cagliata, verrà poi porzionata e distribuita nelle forme, mentre dal liquido restante si otterrà ricotta e dalla panna il burro. Un piccolo miracolo caseario, che si ripete ogni mattina.
Da un'operosità bucolica ai ricordi della guerra, il passo è breve
Dalla malga è questione di cinque minuti salire alla Crocetta di Zebio, un risalto roccioso che offre un’ampia veduta sull’altopiano sottostante. A ridosso della sua cima arrotondata restano le murature di pietra di quello che durante la Prima Guerra Mondiale è stato un piccolo quartiere militare. Pochi altri passi e si comprende il motivo della sua presenza: un labirinto di trincee letteralmente scavate nella roccia, con scalette, postazioni di tiro e rifugi sotterranei dove trovare scampo alle bombe. Opera dell’esercito austro-ungarico, restò inespugnato fino alla fine delle ostilità, nonostante i molteplici tentativi italiani. Il tutto, perfettamente leggibile, grazie al lavoro di restauro compiuto nell’ambito dell’Ecomuseo della Grande Guerra nelle Prealpi Vicentine. Il sito della Crocetta di Zebio ha tra l’altro la particolarità di essere attraversato dal Sentiero della Pace, un itinerario escursionistico di 500 chilometri che collega luoghi salienti del conflitto, dal Passo del Tonale, in Lombardia, alla Marmolada, in Veneto.
Un viaggio nella memoria
La giornata in malga, con ineludibile risvolto gastronomico, leggasi polenta, formaggio e sopressa, e poi il giro nelle trincee della Crocetta, meditando sul destino di chi le ha scavate, potrebbero anche bastare per dirsi soddisfatti della giornata. Varrebbe proprio la pena, invece, spingersi un po’ più in là, proseguendo sulla stessa strada fino a raggiungere la Lunetta di Zebio, segnalata da una stele di marmo rosso. La zona è sacra perché sotto lo sfasciume di rocce riposano trecento fanti italiani, vittime di una catastrofica esplosione in una sciagurata guerra di mine, gli uni che cercavano di far saltare per aria gli altri e viceversa. Salvo che qui sembra essersi trattato di una fatalità, probabilmente un fulmine, a causare la tragedia. Proseguendo ancora per ameni scenari di prati e boschi, si raggiunge infine uno dei 41 cimiteri militari che restano sull’Altopiano: quello della gloriosa Brigata Sassari, 212 croci a testimonianza del triste contributo della Sardegna alla Guerra degli Altipiani. Il tutto, un’oretta tra andata e ritorno, sempre nell’ambito dell’Ecomuseo della Grande Guerra, con dettagliate tabelle esplicative.
Brigata Sassari
«Il dramma della guerra è l'assalto. La morte è un avvenimento normale e si muore senza spavento. Ma la coscienza della morte, la certezza della morte inevitabile, rende tragiche le ore che la precedono…. L'assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra.» Così scrive Emilio Lussu, ufficiale della Brigata Sassari, nel suo libro Un anno sull’Altipiano, ricordando il vano sacrificio degli italiani sul Monte Zebio; un capolavoro della letteratura antimilitarista, sicuramente la lettura da portare sottobraccio visitandone i luoghi. Si trattava, per via della posizione centrale, di un caposaldo nevralgico della linea austriaca e per tale motivo attrezzato con un formidabile sistema di trincee, gallerie e postazioni, sfidando le quali, dal giugno 1916 al luglio 1917, gli italiani patirono gravissime perdite. Proprio su questo tratto del fronte la Brigata Sassari conquistò una delle sue quattro medaglie d'oro alla bandiera, ma senza avere ragione della difesa austriaca.
Incontri a sorpresa tra i prati
Basta restare fermi un po’, facendo correre lo sguardo nell’anfiteatro erboso che s’innalza dietro la malga, per cogliere qualche movimento frettoloso. Una marmotta! E poi un’altra! Insomma un’intera colonia di questi roditori bene impellicciati, con il loro daffare quotidiano per mettere su grasso per l’inverno o accapigliarsi in schermaglie di gerarchia. E lo stesso dicasi su alla Crocetta, dove può capitare di affacciarsi da una trincea e prendersi uno spavento per il fischio d’allarme della marmotta che la presidiava. Insomma, nonostante i trascorsi bellici e le attività umane, la natura sembra avere pieno controllo del luogo.
Per il naturalista è uno spasso, specie per quel che riguarda i fiori, in gran varietà, e gli uccelli degli spazi aperti. La particolarità botanica è la spettacolare genziana punteggiata (Gentiana punctata), tipica dell’arco alpino, ma poco frequente nel Vicentino, ad eccezione proprio del Monte Zebio, dove ha trovato il proprio habitat in certe depressioni del terreno tipiche dell’ambiente carsico. Quanto agli uccelli: spioncelli, prispoloni, culbianchi... ma servirebbe un binocolo. Salvo che nel caso dell’impertinente codirosso spazzacamino (Phoenicurus ochruros), rappresentante della famiglia dei pigliamosche, che proprio per questo gironzola senza farsi troppi problemi attorno alla malga, passando da una roccia sporgente alla staccionata della stalla, oscillando di continuo la coda in modo inconfondibile.
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