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Burlina, indomita regina dell’Altopiano

Tra storia e leggenda è Mario Rigoni Stern a raccontare un divertente aneddoto sulla più titolata tra le vacche dell’Altopiano dei Sette Comuni

Dov'è

Veneto

Altopiano dei Sette Comuni, VI, Italia (1.072m s.l.m.)

Indicazioni stradali
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La Burlina è una vacchetta pezzata, simpatica di nome e d’aspetto, e c’è da scommettere che prima o poi diventerà la mascotte di peluche dell’Altopiano dei Sette Comuni. Lo meriterebbe, perché ha una vicenda romanzesca che si dipana lungo un arco di oltre due millenni. Prima data di riferimento: l’anno 100 avanti Cristo; sullo sfondo: la penisola dello Jutland, tra Mare del Nord e Baltico, oggi parte della Danimarca. Qui viveva il popolo dei Cimbri, tristemente noto alle cronache antiche per le sanguinose sconfitte inferte alle legioni romane nella sua avanzata verso sud. Gli sventurati, a quanto pare, furono costretti a sloggiare a causa di un tracollo climatico che aveva reso gelida la loro terra. Fatto sta che un intero popolo – armi e bagagli, vacche comprese – per una decina d’anni girovagò per l’Europa Centrale seminando scompiglio. Poi, il fatale scontro con il console Caio Mario e qui la storia cede il passo alla leggenda, che vuole i pochi superstiti imboscati nelle valli bavaresi a inventarsi una nuova vita da montanari.

altopiano-fiorituraLe fioriture d’altopiano, primo fattore d’eccezionalità dei formaggi di Asiago

Il secondo capitolo si apre con un cambio di scena e d’epoca, nella Vicenza dell’anno Mille: una città rinomata per la produzione di «panni alti» di lana, affamata di nuovi territori da destinare alla pastorizia. A quei tempi l’altopiano che oggi chiamiamo dei Sette Comuni era una distesa pressoché continua di faggete e abetaie, la cui conversione in pascoli avrebbe soddisfatto la borghesia laniera. A quanto si tramanda, fu il vescovo di Vicenza ad avere la brillante idea di chiedere al suo pari grado di Monaco l’invio di boscaioli adatti all’impresa, guarda caso i discendenti degli antichi Cimbri, cresciuti al punto tale da potersi dire nuovamente popolo. È così che al loro seguito anche la vacca Burlina fa il suo ingresso sull’altopiano. Nome curioso, che ricalca quello di una mitica regina danese, a sostegno di tutto questo bel racconto, come pure recentissime analisi del Dna, che provano la parentela di questo bovino d’altri tempi con le odierne Frisone del Nord-Europa.

formaggio-lavorazioneAppena finita la lavorazione del latte, le forme riposano in fascere di legno

Così giungiamo al terzo capitolo, che richiede un altro salto di quasi mille anni, fino alla prima metà del Novecento. I Cimbri vivono in dignitoso isolamento sull’altopiano detto dei Sette Comuni proprio dal numero delle loro comunità: abitano case dal tetto di paglia, parlano una lingua decisamente germanofona e praticano una pastorizia finalizzata alla produzione di un formaggio – «keeze», dicono loro – che già nel 1931 la Guida Gastronomica d’Italia del Touring Club descrive come «grasso di montagna, di latte di vacca, noto col nome di Asiago.»

La Burlina è loro fedele compagna, ma sul connubio incombe una grossa nuvola. A raccontarlo è Mario Rigoni Stern nel suo romanzo «Le stagioni di Giacomo»: infatti corre l’anno 1933, XII dell’era fascista, quando giunge l’ordine di eliminare tutti i tori Burlini per favorire l’introduzione di una razza svizzera di migliori attitudini, la Svitt, ovvero l’attuale Bruna Alpina. I montanari, subodorando qualche pastetta di regime, scendono in piazza per protestare ma finiscono in gattabuia senza troppi complimenti. Allora è la volta delle loro mogli, che li seguono al grido di «Viva Mussolini e i tori Burlini» e nessuno ha il coraggio di sfiorare delle donne che inneggiano al capo del governo, seppure con una malizia al limite dell’irriverente. La manifestazione fa grande scalpore ma non cambia il destino della vacca Burlina, che nel giro di qualche decennio si riduce sull’orlo dell’estinzione. Piccola e di modesta produzione, per quanto adatta alla montagna, la Burlina non regge il confronto con le razze moderne, selezionate per diventare vere e proprie macchine da latte.

aladinoAladino, discendente di quei tori burlini ricordati da Rigoni Stern in un suo racconto

Il quarto e ultimo capitolo, si spera, riguarda il ritorno della Burlina sui pascoli dell’altopiano ed è cronaca di anni recenti: recuperati i pochi capi superstiti, spesso di sangue un po’ confuso, si procede a riportare in purezza la razza e a restituirla alla montagna. Una delle prime aziende ad accoglierla è Malga Porta Manazzo, 1738 metri di quota, che può essere meta di una bellissima gita a piedi o in auto. Qui si rinnova ogni giorno un ciclo di lavoro senza tempo: all’alba si mungono le vacche, prima di lasciarle libere al pascolo, e si procede alla lavorazione aggiungendo questo latte a quello della sera precedente scremato per affioramento; poi, per sommi capi, avviene il riscaldamento a fuoco di legna nel grande calderone di rame; quindi il piccolo miracolo del caglio, che separa la componente liquida da quella solida; infine, il recupero della massa da mettere in forma e la salatura che segna l’avvio della stagionatura. L’hanno dimostrato appositi studi: il formaggio Asiago di vacca Burlina non ha paragoni.

altopiano-malga-porta-manazzaMalga Porta Manazzo (m 1795), coinvolta nel programma di rilancio della vacca Burlina

Questo è lo spettacolo che si ripete in ciascuna delle 87 malghe dell’altopiano «caricate» ogni anno a bovini e ovini. Sono numeri da vero paradiso caseario che anche per questo meriterebbe d’entrare nella lista del Patrimonio dell’Umanità. Per conoscerlo oggi si percorre la Via delle Malghe, una rete di 16 itinerari tabellati al servizio di un turismo naturalistico e gastronomico unico nel suo genere.

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